Su Il Foglio del 10/3/2020, a pag. 3 c’è una recensione del mio libro Gratitudine politica I: dall’età classica al Medioevo, Mimesis, Milano, 2019, a firma di Giuseppe Perconte Licatese.
Segue il testo dell’articolo.
Nel Critone, l’argomento che convince Socrate a non sottrarsi alla condanna è portato dalle Leggi personificate, che ricordano a lui il debito che ha verso di loro per essere stato generato ed educato come cittadino ateniese. Nell’ideologia repubblicana di Cicerone la patria diventa la “genitrice più antica” che dispensa i benefici maggiori e a cui sono orientati i più alti doveri dei cittadini/figli. All’uomo medievale sarà insegnato a essere grato a Dio e anche al proprio superiore terreno, sia spirituale sia temporale, cui è dovuta obbedienza nel quadro di un ordine politico naturale e provvidenziale.
Questo è solo uno dei percorsi possibili delineati a partire dalla feconda intuizione che la gratitudine ha profondamente a che fare, in Occidente, con l’obbligazione politica. Prima della sua privatizzazione moderna, che l’ha ridotta a (libero) sentimento, la gratitudine è stata costantemente teorizzata e incoraggiata come virtù legata alla giustizia e come dovere di restituzione. Diego Lazzarich ne ha percepito l’importanza per contrasto, osservando che – come sarà approfondito nella seconda parte di questa ricerca – l’emancipazione dei filosofi moderni (ad esempio in Locke) passa attraverso legami contrattuali volti anche a depotenziare i vincoli, sempre in fondo indeterminati e inestinguibili, della gratitudine, per liberare la politica dalla matrice del rapporto genitori-figli e dall’arbitrarietà del dono dei superiori agli inferiori.
Seguire le tracce della gratitudine nel pensiero politico occidentale porta a confrontarsi, in queste pagine, con linguaggi e concetti differenti, abbandonando le categorie nette (diritto/politica, privato/pubblico) dello Stato moderno. Presso i Greci, al centro del discorso c’è la charis, parola numinosa che denota il bene dato e ricevuto sia nei rapporti tra uomini e dèi sia in quelli tra uomini, dove la politica interna è teorizzata, con Aristotele, come parte della philìa (amicizia). La charis gioca inoltre un ruolo nella tessitura delle alleanze di politica estera – per non citare il discorso di Pericle riportato da Tucidide, in cui Atene presenta il proprio come un impero benefico. Quella romana è una società di patroni e clienti legati dalla gratia, e le istituzioni elaborano, come attesta Livio, il rendimento di grazie come atto pubblico (per i soldati in guerra, per l’operato dei magistrati). Il potere vuole gratitudine, ma è sempre accompagnato dall’ombra della sua mancanza, come nel caso emblematico del dittatore Furio Camillo, esiliato benché abbia difeso Roma dai nemici.
Gratitudo sarà, infine, lemma tardomedioevale; ma che operi capillarmente fin da subito lo dice anche solo il fatto che il feudo era detto beneficium. Il cristianesimo ha intanto esaltato e trasfigurato – in particolare con la riflessione di Agostino – l’idea della gratia, che ora discende dall’unico vero Dio, offre la salvezza dell’anima ed è mediata in primo luogo dal pontefice e dal clero. Il medioevo si rivela così essere anche il periodo in cui l’autorità temporale lotta per affermare la propria ingratitudine ovvero indipendenza da ogni concessione ecclesiastica, e anzi, come in Marsilio da Padova, per rovesciare i ruoli di beneficato e benefattore.
Questa originale ricerca storica riporta alla luce una concezione politica (e innanzitutto antropologica) antecedente al liberalismo moderno, per la quale, come l’autore dice richiamando l’idea di communitas di Roberto Esposito, nessuno è completamente padrone di se stesso e il legame politico unisce persone che non sono in diritto bensì in debito le une verso le altre.